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Rapporto tra gli artt. 497 ter e 498 cp – Segni distintivi dei Corpi di Polizia usati illecitamente. Una vicenda processuale ed una proposta di interpretazione

È dato di comune esperienza che le divise, così come tutti gli altri oggetti o segni distintivi propri degli appartenenti ai Corpi di Polizia, sono riservati agli stessi. Non è lecito detenerli o usarli, neanche per gioco, se non se ne ha il titolo.

Eppure, in tempi più o meno lontani, molti hanno avuto un congiunto o un amico che si ritrovava in casa una divisa del padre o dello zio ex carabiniere. E non sono molti quelli che hanno resistito alla tentazione di indossarla, davanti ad una specchio, o, quelli più spericolati, magari “altrove”.

Classicamente, con ingenuità adolescenziale, si diceva che per non rischiare nulla bastasse togliere gradi e mostrine. Ma, a ben vedere, non è proprio cosi, almeno stando all’esperienza dei tribunali.

La vicenda. Nel dicembre 2016 un anziano signore si trovava in una zona di montagna, quando venne “intercettato” da alcune guardie giurate appartenenti ad un’associazione ambientalista, che si approcciarono al lui per un controllo.

Questi, alla richiesta delle guardie, a dire delle stesse, avrebbe mostrato una pettorina che indossava e che avrebbe recato la scritta “Corpo Forestale dello Stato”.

La pettorina in questione, per altro, non veniva mai sequestrata, né ve n’era traccia alcuna negli atti di indagine, entrando poi nel processo solo ed esclusivamente attraverso la deposizione delle guardie, sentite come testi.

In ogni caso, si trattava di una pettorina o casacca in uso, a suo tempo, al Corpo Forestale dello Stato, donata all’anziano – successivamente indagato ed imputato – da un ex appartenente a quel Corpo, ormai pensionato, previa rimozione dei gradi e di quant’altro.

Il capo di abbigliamento, comunque, non era più in uso, perché risalente ad epoca precedente all’accorpamento del Corpo Forestale dello Stato con l’Arma dei Carabinieri.

Questi dunque i fatti, in relazione ai quali l’anziano in questione veniva tratto a giudizio innanzi al Tribunale di Avellino per il reato di cui all’art. 497 ter cp. (Possesso di segni distintivi contraffatti).

Il giudizio si è concluso con una sentenza del gennaio 2020, depositata in piena emergenza Coronavirus, con la quale l’imputato è stato condannato all’incredibile pena di due anni e sei mesi di reclusione, senza sospensione condizionale della pena.

Dopo la sentenza di primo grado, lo Studio Legale Di Meo è stato quindi incaricato di predisporre l’impugnazione in appello.

È per altro fin da subito emersa sia l’abnormità del trattamento sanzionatorio riservato all’imputato dal Tribunale di Avellino, sia l’inadeguato ed inappropriato inquadramento della fattispecie concreta, posto che per la natura e le specifiche modalità della vicenda, la riconduzione della stessa all’ipotesi di reato di cui all’art. 497 ter c.p. è apparso uno sproposito.

Il Tribunale di Avellino, per altro, non lesinava nel suo deliberato plurimi riferimenti giurisprudenziali, che se pur non del tutto conferenti, apparentemente militavano a favore dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.

Lo studio approfondito della questione ha tuttavia consentito di concludere diversamente e, se non altro, di prospettare alla Corte di Appello di Napoli un’interpretazione diversa, più favorevole all’imputato, confortata da avveduta giurisprudenza di legittimità.

Invero, il Tribunale di Avellino ha condannato l’imputato muovendo da presupposti interpretativi, dati acriticamente per acquisiti, senza alcuno sforzo ricostruttivo.

In sostanza, per quando la motivazione della sentenza sia piuttosto criptica, essa conclude nel senso che la detenzione del segno distintivo in questione, ossia la pettorina, debba, senza alcun dubbio, essere considerata penalmente rilevante ai sensi dell’art. 497 ter n. 1 c.p., secondo il quale “le pene di cui all’articolo 497 bis si applicano anche […] a chiunque illecitamente detiene segni distintivi, contrassegni o documenti di identificazione in uso ai Corpi di polizia, ovvero oggetti o documenti che ne simulano la funzione”.

E parrebbe che la fattispecie concreta sia stata ricondotta alla seconda parte del citato n. 1 dell’art. 497 ter c.p., quando si riferisce agli oggetti che “simulano la funzione”. A tanto, evidentemente, si giunge in quanto, in ossequio a quanto ritenuto da parte della giurisprudenza, per il vero cospicua, si è opinato, da un lato, che il requisito dell’attualità dell’uso non sia richiesto dalla disposizione di cui alla seconda parte del n. 1 citato, e, dall’altro, che sia irrilevante la circostanza che non si trattasse di oggetti non contraffatti.

In tale direzione, per il vero, si può ricordare chiarissima giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “sebbene la rubrica dell’articolo parli di possesso di segni distintivi contraffatti, non è l’autenticità degli oggetti che viene tutelata dall’ordinamento, ma la riserva alle forze di polizia dei segni e degli oggetti che identificano queste ultime, perché attraverso di essi avviene il riconoscimento del personale investito della funzione” (Cassazione penale, sez. V, 29.05.2014, n. 32964).

E tuttavia, non pare che questa sia l’unica opzione possibile. In effetti, con riguardo alla specifica vicenda processuale, assunta, per quanto impropriamente, come termine di riferimento la norma incriminatrice di cui all’art. 497 ter c.p., il capo di imputazione faceva riferimento al fatto che l’imputato “illecitamente deteneva e faceva uso di una pettorina con i segni distintivi in suo al corpo Forestale dello Stato”.

Ebbene, anche a voler in questa fase concentrare la disamina su semplici dati letterali, il “far uso” dei segni distintivi è fattispecie considerata dal n. 2 della citata norma. La disposizione de qua, collocata nell’ambito del Titolo VII, Capo IV (Della falsità personale), come noto, nella sua rubrica, fa riferimento al “Possesso di segni distintivi contraffatti”, e, al n. 2 punisce, per l’appunto, “chiunque illecitamente fabbrica o comunque forma gli oggetti e i documenti indicati nel numero precedente, ovvero illecitamente ne fa uso”.

Nel caso di specie, per altro, è pacifico, ove di segno distintivo si trattasse, che lo stesso non era affatto contraffatto, trattandosi di un oggetto già in uso ad un familiare dell’imputato, ex appartenete al Corpo Forestale dello Stato. Si aggiunga, che si trattava di oggetto non in più uso, in quanto risalente ad epoca precedente all’accorpamento del Corpo Forestale dello Stato con l’Arma dei Carabinieri.

Ciò rileva ai fini dell’esclusione della riferibilità della condotta anche al n. 1 dell’art. 497 ter c.p., posto che quest’ultimo sanziona, attraverso il richiamo all’art. 497 bis c.p., la condotta di “chiunque illecitamente detiene segni distintivi, contrassegni o documenti in uso ai corpi di polizia […]”.

Non si ignora, ovviamente, che il n. 1 dell’art. 497 ter c.p. sanziona anche la condotta di chi detenga “oggetti e documenti” che “simulano la funzione” dei segni distintivi, dei contrassegni o dei documenti di identificazione. E pur tuttavia, la comprensione della norma non può prescindere dalla interpretazione letterale e sistematica.

Il legislatore, infatti, di certo non casualmente, ripetesi, nell’ambito di una norma rubricata “Possesso di segno distintivi contraffatti”, coerentemente usa l’espressione “simulano”, lasciando chiaramente intendere che non si deve necessariamente trattare di oggetti che riproducano fedelmente, in tutti i dettagli, quelli originali ed autentici, ma è sufficiente che gli stessi siano idonei, sia pure nella riproduzione non conforme, a simulare, ossia imitare un oggetto, così da trarre in inganno in ordine alle qualità personali.

Ma, pur sempre, devono poterne simulare la funzione, nella loro non conformità e non autenticità, se non altro per l’intuitiva ragione che se si trattasse di oggetti autentici ed originali, si ricadrebbe nell’ambito nella previsione di cui alla prima parte dello stesso art. 497 ter n. 1 c.p., (in caso diverso la specificazione non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere), oppure, se si trattasse di oggetti conformi, ma illecitamente fabbricati, rileverebbe il n. 2 dell’art. 497 ter c.p.

Del resto, la conferma della correttezza dell’interpretazione appena prospettata, si ricava anche in via giurisprudenziale. Si è infatti affermato che “la condotta integrata dalla detenzione di segni o contrassegni in uso a corpi di Polizia, prevista nella prima parte dell’art. 497 ter c.p., comma 1, n. 1, è disciplinata unitamente a quella, contenuta nella seconda parte del n. 1 dello stesso art. 497 ter c.p. ossia, alla previsione riservata, appunto, alla detenzione di altra tipologia di oggetti in parte o in toto contraffatti, tali dovendosi ritenere quelli che simulano la funzione di quelli indicati nella prima parte della norma, essendo questi ultimi, quelli originali – come sopra detto – in uso ai corpi di Polizia (Cassazione penale, sez. V, 14 agosto 2013 n. 35094).

Ma vie di più. Il n. 2 dell’art. 497 ter c.p. usa l’espressione “ne simulano la funzione”. Il legislatore, dunque, ricorre ad una particella pronominale che non può non presupporre il riferimento ai “segni distinti, contrassegni o documenti di identificazione in uso ai Corpi di Polizia”.

In sostanza, quindi, i segni distintivi o sono autentici ed illecitamente detenuti, ovvero sono non autentici o non conformi, eppure tali da simulare (imitare), ma, in ogni caso, il riferimento è sempre ai segni distintivi in uso, all’attualità, ai Corpi di Polizia. Ne discende, con chiarezza, con riferimento alla specifica vicenda processuale, la non configurabilità di alcuna delle ipotesi di reato contemplate dall’art. 497 ter c.p.

Verità è che la fattispecie concreta ben più coerentemente ed adeguatamente, si sarebbe dovuta ricondurre alla previsione di cui all’art. 498 c.p. In effetti, è di tutta evidenza che l’elemento essenziale e qualificante della condotta ascritta all’imputato, non è la detenzione del segno distintivo, ma l’aver indossato, senza averne titolo, la pettorina recante la scritta sbiadita “Corpo Forestale dello Stato”, spendendo illecitamente la relativa qualità.

In effetti, l’art. 498 c.p., reato depenalizzato dal D.lgs 507/1999, contempla una sanzione amministrativa per chi “fuori dei casi previsti dall’articolo 497 ter, abusivamente porta in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio o impiego pubblico, o di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario […]”. Anche qui, per altro, rileva un dato letterale, costituito dalla circostanza che la norma da ultimo citata contempla espressamente il riferimento alla “divisa”, che invece non si ritrova nell’art. 497 ter c.p., che prevede solo i segni distintivi.

Dirimente, in ogni caso, è quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “ciò che rileva ai fini della fattispecie di cui all’art. 498 – che ora integra solo un illecito amministrativo – è l’attribuirsi una qualifica di pubblico funzionario, anche attraverso l’abusivo uso di contrassegno senza alcun concreto esercizio di atti inerente a tali funzioni” (Cassazione penale, sez. VI, 24.04.2012 n. 31427).

Conclusivamente, dunque, non solo la sanzione penale applicata dal Tribunale di Avellino è spropositata, in sé stessa, ma vi è ampio spazio per ritenere la condotta ascritta all’imputato non penalmente rilevante.

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