Figli maggiorenni. Mantenimento fino a quando?
La famiglia e più in generale i rapporti familiari, come noto, sono oggetto di alcune importanti norme della nostra Costituzione. In particolare, vengono in rilievo soprattutto gli artt. 29 e e 30.
L’art. 29 Cost. prevede infatti che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Molto si potrebbe dire su questa norma, soprattutto nella misura in cui sembra creare un nesso indissolubile tra famiglia e matrimonio. Ma i Padri Costituenti, pur essendo certamente figli del loro tempo, erano legislatori assai più illuminati di quelli attuali, e non mancarono certo sia di porre le premesse per un’interpretazione più ampia del concetto di famiglia, sia di fare espresso riferimento alla tutela di rapporti familiari non fondati sul matrimonio.
Del resto, sotto il primo profilo, è ben nota l’evoluzione, sia sul piano interno che su quello internazionale, del concetto di famiglia.
In effetti, prescindendo da contingenti approcci al tema, spesso strumentali, non laici e comunque certamente anacronistici, si è ormai portati a definire la famiglia in termini di comunità di affetti, che non solo non è necessariamente legata al vincolo matrimoniale, in senso proprio, ma può anche non essere fondata sul legame di sangue, di modo che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa [Corte Costituzionale, sent. 117/2020].
Quanto al secondo profilo, il Costituente ha anche previsto, all’art. 30 che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio […]. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”.
Naturalmente, il dovere dei genitori di mantenere ed educare i figli trova specifica regolamentazione, primariamente, nel codice civile, ed il legislatore ha predisposto specifici e plurimi strumenti processuali per assicurare, almeno tendenzialmente, il rispetto di questo dovere.
A tal proposito viene in rilevo in primo luogo, l’art. 147 c.c., secondo il quale “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni”.
Ancor più significato è poi l’art 315 bis c.c., il quale stabilisce che ”li figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
Per altro, in questa sede si intende trattare un tema particolare, ossia quello che riguarda la posizione ed i diritti dei figli maggiorenni. Ci si chiede, infatti, se e fino a quando i figli che hanno raggiunto la maggiore età hanno diritto ad essere mantenuti dai genitori.
In termini generali bisogna innanzi tutto ricordare quanto previsto dagli artt. dall’art. 442 e seguenti del codice civile, in materia di alimenti. L’obbligazione alimentare, tuttavia, per un verso ha portata più ampia, perché i soggetti obbligati possono essere diversi – non solo i genitori – ma, per altro verso, ha anche portata più limitata rispetto all’obbligo dei genitori rispetto ai figli.
Infatti, l’obbligo degli alimenti [art. 442 ss cc.] riguarda la necessità di fornire il sostentamento necessario ed essenziale a chi è in stato di bisogno e non può provvedere a sé. L’obbligo di istruire e mantenere i figli, invece, è un dovere che comprende non solo il mantenimento, ma anche la cura, l’educazione e la formazione dei figli.
Ciò premesso, accade sovente, anche nell’esperienza giudiziaria dello Studio Legale Di Meo di Avellino, magari nel quadro di pregressi rapporti familiari conflittuali o problematici, che un figlio maggiorenne chieda o pretenda di essere mantenuto dal genitore.
Generalmente, la prima domanda che viene posta è quella che riguarda il limite del dovere in questione. Ossia, fino a quando, ed in particolare sino a quale età e, soprattutto, a quali condizioni i genitori devono comunque occuparsi dei figli?
Sul punto occorre subito rispondere che non esiste un termine di riferimento esatto, esplicito ed inequivocabile. Certamente la maggiore età non è sufficiente, di per sé, a liberare il genitore, pur potendosi ovviamente ipotizzare soluzioni deferenti in relazione al concreto atteggiarsi della questione, quanto alla posizione delle parti in causa.
La matteria è per altro regolata da una specifica norma, ossia, l’art. 337 septies c.c., in forza del quale “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.
Pertanto, il potere-dovere del giudice di riconoscere al figlio maggiorenne un assegno di mantenimento, ha natura discrezionale, nel senso che è rimessa al prudente apprezzamento dello stesso la valutazione dei presupposti in presenza dei quali “può” essere riconosciuto tale diritto. Tale valutazione che deve dunque essere fatta caso per caso.
La Giurisprudenza interpreta ed applica la normativa in materia alla luce del c.d. principio di autoresponsabilità. Infatti, il presupposto per la corresponsione dell’assegno, è costituito dalla incolpevole mancanza di indipendenza economica del figlio maggiorenne, per non essere, quest’ultimo, in grado di garantirsi autonomamente il sostentamento e la soddisfazione dei principali bisogni della vita confacenti la sua condizione sociale.
La Corte di Cassazione ha sottolineato che l’obbligo a carico del genitore non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, essendo, invece, destinato a protrarsi qualora il figlio, divenuto maggiorenne, continui a dipendere dai genitori senza sua colpa.
L’obbligo di mantenimento in capo al genitore va invece escluso sia nel caso in cui il figlio abbia raggiunto l’indipendenza economica, sia nel caso in cui lo stesso sia stato colposamente inerte nella ricerca di un’occupazione, abbia rifiutato ingiustificatamente di accettare un’attività lavorativa confacente alle capacità acquisite o, ancora, nelle ipotesi in cui, pur essendo stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, non ne abbia tuttavia tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta.
Una delle cause che possono portare alla mancanza di indipendenza economica del figlio maggiorenne è spesso il proseguimento del percorso di studi. Se in effetti la valutazione in ordine alla concessione dell’assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne deve essere fata caso per caso, occorre evidentemente anche tener conto della condotta del figlio quanto al suo percorso di formazione ed alle opportunità concrete che gli si potrebbero prospettare.
In questi termini si è precisato, ad opera della Giurisprudenza, che si deve valutare necessariamente l’andamento scolastico, universitario e post-universitario del soggetto, mettendolo in relazione alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il medesimo abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione, investendo impegno personale ed economie familiari.
Inoltre, la valutazione deve necessariamente essere condotta con rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all’età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura. In caso contrario, infatti, l’assistenza economica protratta all’infinito si risolverebbe in forme di vero e proprio parassitismo di figli non più giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani.
Parimenti, è stato ormai chiarito che il progetto educativo ed il percorso di formazione prescelto dal figlio, se deve essere rispettoso delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, deve tuttavia essere compatibile con le condizioni economiche dei genitori.
Naturalmente, il matrimonio o, comunque, la formazione di un autonomo nucleo familiare, escludono l’esistenza dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, posto che il matrimonio, come la convivenza, sono espressione di una raggiunta maturità affettiva e personale, implicando di regola che nessun obbligo di mantenimento possa sopravvivere.
I principi appena sopra esposti sono ormai ampiamente consolidati nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità [da ultimo, Cassazione civile, sez. I, 11.02.2025 n. 3552], pur dovendosi ribadire che la valutazione in ordine alla concessione dell’assegno di mantenimento da parte del giudice è comunque espressione di una valutazione discrezionale della situazione concreta, così come emerge in termini di prova.
Non è infatti infrequente che si presentino nella comune esperienza situazioni che solo strumentalmente vengono rappresentate come condizioni di debolezza o di mancanza di indipendenza economica, che in quanto tali non di rado portano, giustamente, ad esiti infausti per il richiedente che opera un vero e proprio abuso di diritto.
D’altra parte, si deve segnalare un ulteriore elemento che non sempre viene adeguatamente valorizzato in vicende di tal fatta. Si ricorda, in particolare, che se la posizione ed i diritti dei figli, anche se maggiorenni, trovano giusta e precisa tutela nelle norme citate – tra le tante che pure sarebbero rilevanti – a loro volta anche sui figli gravano dei doveri, se non altro quelli previsti dall’art. 315 bis comma 4 c.c.
Tale norma, infatti, prevede che “il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”. E’ dunque evidente, a parere di chi scrive, che tale disposizione non può non essere un utile ed anzi determinante criterio di supporto nella valutazione della situazione concreta, se non altro in termini di giustizia sostanziale.
Ma occorre rispondere ad un’ulteriore domanda. Ci si chiede, infatti, come ci si deve regolare nel caso in cui il figlio maggiorenne abbia raggiunto la sua indipendenza economica – e quindi perso il diritto al mantenimento ai sensi dell’art. 337 septies c.c., ma, per qualche ragione venga a trovarsi successivamente in difficoltà, per esempio, per aver perso il lavoro. Questa situazione fa risorgere il diritto al mantenimento?
La risposta data dalla giurisprudenza è tendenzialmente negativa. Si è infatti affermato che “lo svolgimento di un’attività retribuita, ancorché prestata in esecuzione di contratto di lavoro a tempo determinato, può costituire un elemento rappresentativo della capacità del figlio di procurarsi un’adeguata fonte di reddito, e quindi della raggiunta autosufficienza economica, che esclude la reviviscenza dell’obbligo di mantenimento da parte del genitore a seguito della cessazione del rapporto di lavoro” [Cassazione civile, sez. I, 04.04.2024, n. 8892].
Conclusioni:
I genitori non possono rifiutarsi di assistere e mantenere i figli, anche se diventati maggiorenni. Ma a loro volta i figli non possono abusare delle tutele previste a loro favore. Debbono adoperarsi per raggiungere la totale autonomia ed indipendenza, eventualmente all’esito di un percorso di studi adeguato ed in tempi ragionevoli, compatibilmente con le disponibilità economiche dei genitori.
A tutto c’è un limite, come chiarito dalla giurisprudenza, la quale, anche in mancanza di una specifica e tassativa disposizione, spesso, più o meno esplicitamente, individua questo limite nel compimento dei trenta anni.
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