Le cronache giudiziarie di questi giorni raccontano di un pastore assolto, dopo trentatré anni di carcere, con un giudizio di revisione penale “per non aver commesso il fatto”. Si è in tal mo concluso il giudizio revisione.
Sarebbe troppo facile commentare l’inadeguatezza e la sciatteria di chi, allora e nei decenni successivi, ha avuto un ruolo in quell’infausto errore ed orrore giudiziario.
Sarebbe scontato condannare la superficialità o la mala fede di questo o di quello, poco avvezzo alla scienza e coscienza, ma sempre pronto al giudizio sommario, più vicino alla sentenza del “tribunale del popolo”, mediatico o social che sia. Lascio ad altri questa missione.
Mi interessa invece un altro aspetto, quello umano. Non si tratta semplicemente di essere solidali con questo povero pastore. Chiunque non può che sentirsi dalla sua parte.
Si tratta invece di ammirare lo spirito, la dignità e lo straordinario rispetto mostrato da un uomo che ha lottato per più di trent’anni affermando la sua innocenza, credendo nonostante tutto nelle istituzioni.
E quando poi finalmente ce l’ha fatta, non una parola fuori posto, non un’accusa, una recriminazione, nessuna manifestazione scomposta dei familiari, nessun urlo o sbattimento, nulla di tutto questo. Un solo commento, ossia, “ho ottenuto quello che mi spettava”.
Certo ci sarà un seguito, lo Stato pagherà per l’errore, pagherà per aver rovinato irreversibilmente la vita di quello che all’epoca era un ventisettenne, ed ora si trova ad averne più di sessanta, di anni. Ma nessuna somma di danaro potrà mai restituirgli la sua vita.
Lui ha invece dato un insegnamento a noi tutti, la lezione della dignità, ed al tempo stesso quella del rispetto per se’ stessi e per le istituzioni, quelle istituzioni e quelle funzioni latamente giudiziarie, talvolta, forse troppo spesso, imbrattate da protagonisti imbarazzanti, al di qua ed al di là del banco dell’aula dei tribunali.
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